Gabriele Poli

Critica. Conversazione con Dimitri Plescan

D.
Una formazione "secondo regole" come la tua, prima al Liceo artìstico e poi all'Accademia di Brera, comporta di solito conseguenze durevoli ed evidenti in rapporto al disegnare. Nel bene e nel male, quale ruolo ha giocato in te questo tipo di esperienza?

R.
Ritengo che il disegno rappresenti una componente basilare nell'elaborazione dei processi artistici, un'esperienza fondativa imprescindibile per lo sviluppo dei processi visivi. Anche se, al momento attuale, quello che metto su carta non è progetto delle tele, posso dire che i travasi dall'una all'altra pratica sono continui e inseparabili.

D.
Nel fare, e necessariamente in ciò che precede il fare, sei ormai molto distante, diverso, rispetto ai tuoi inizi?

R.
Per certi versi, sì. No per altri.
Nel mio fare sono ormai distante da quelle esperienze iniziali, tuttavia ad esse conseguente, in movimento lungo linee che non si sono mai interrotte.
Un filo molto robusto che collega l'attenzione per il "sociale" dei miei lavori di esordio con l'odierna "scoperta" delle discariche urbane secondo me esiste.
Si tratta di una sensibilità, non transitoria, ai richiami sommessi e dimessi che ieri provenivano dall'universo degli esclusi e, adesso, da quelle galassie di residui che butterano i margini della città. Forse si tratta di un mio speciale orecchio allertato all'ascolto di quel che brulica ai margini, ma che, per me, non è marginale.

D.
In questo nostro discorrere sta prendendo campo, secondo diverse valenze, il fattore "tempo". Vogliamo parlarne?

R.
Il tempo? Sì, soprattutto nella sua accezione di "ritmo". Velocità di esecuzione. Facilità di controllo. Controllo dei materiali, del gesto, delle successioni di intervento che ho messo a punto nel mio disegnare. Velocità che mi consente di elaborare sequenze e serie quantitativamente cospicue, nelle quali alcune costanti vengono declinate in variazioni. Sequenze e serie sono comunque ottenute a partire da singoli fogli nei quali il permanere di un segno, a sua volta matrice di una variazione, appartiene esclusivamente ad un mio codice privato.

D.
E nei dipinti, invece?

R.
Le sequenze sulla tela non sono in progressione seriale, ma simultanee. Nuclei formali originari, variazioni, processi trasformativi, rapporti compositivi, tutto si manifesta simultaneamente. Nel mio immaginario l'osservatore stesso rappresenta una parte attiva nel processo di trasformazione, di crescita dei miei dipinti. Vorrei un osservatore corresponsabile, persino complice, del mio fare artistico.

D.
A questo punto, cos'è che distingue il significato del tuo lavoro dalla richiesta di consenso quotidianamente avanzata dalle "proposte d'acquisto" di un mercato che offre prodotti illusoriamente personalizzati?

R.
Nella mia ricerca di un "consenso complice" cerco, pacatamente, di stimolare risposte più complesse. Forse tendo a proporre una sorta di "remissione collettiva", però in una condizione di solidarietà consapevole e di conoscenza critica, senza toni da predicatore, senza verità rivelate, senza partecipazione di messaggi apodittici.
Ho avuto esperienze, per me importanti, con la "congiuntura informale", come scrive Alberto Veca, e con il gestualismo. Quando dipingo sento anche presenti echi del mio essere nato in Lombardia. Il colore della mia regione, insieme con il senso della storia, rappresentano il substrato dell"attenzione per tutto ciò che cambia, cresce, scompare; per tutto quanto testimonia il passato e allude al futuro (le discariche...).
Osservo chi è interessato al mio lavoro, cerco gli spazi e le situazioni in cui le mie opere possono vivere... Ti vedo perplesso. Perché?

2003